A volte un’idea è impossibile da sradicare. È come con gli ingredienti di una zuppa: prima di adoperarli, sono distinti, separati; una volta utilizzati, il miscuglio è troppo amalgamato per essere ben scomposto e si può solo mangiare, buono o cattivo che sia. È successa più o meno la stessa cosa col PD in questi ultimi anni: l’impronta renziana è così radicata, che alla guida del partito è impossibile pensare un volto nuovo o almeno non “toscanofilo”.. si, lo so, è un neologismo un po’ cacofonico, ma l’estetica del brutto è abbastanza diffusa in questi giorni, quindi se la uso anch’io mi perdonerete.. perché “filo-toscano” suona scontato, dai. Comunque, dalla direzione PD è giunta la svolta epocale di cui il partito aveva bisogno per guarire dalla pesantissima sconfitta del 4 marzo: finalmente, tutto resta come prima! Matteo Renzi (assente durante la direzione) si è ufficialmente dimesso, ma la guida del Partito Democratico è passata al vicesegretario Maurizio Martina che sarà reggente almeno fino all’assemblea convocata per il mese prossimo.
Martina, renziano con denominazione di origine controllata, ha esposto la necessità di elezione di un nuovo segretario, anche se non nell’immediato (probabilmente sarà egli stesso a ricoprire quel ruolo); poi ha citato Churchill, ma soprattutto ha afferm.. no, un momento, Martina ha citato Churchill.. chissà la gioia della buonanima del poro Winston! Ma non ci distraiamo! Il vicesegretario ha affermato: “La nostra sconfitta è stata netta. Intendiamo rispettare profondamente il voto di tutti gli italiani e saremo coerenti con gli esiti del 4 marzo. Ora tocca a chi ha ricevuto maggior consenso l’onore e l’onere del governo del paese”. Successivamente, il ministro delle infrastrutture e dei trasporti Graziano Delrio ha rivendicato la stessa linea, dicendo: “abbiamo ricevuto una cartolina netta, chiara, dagli elettori. Noi staremo dove ci hanno messo […]: all’opposizione”. Entrambi hanno quindi difeso le posizioni dello statista di Rignano. Ora, la scelta di non allearsi è coerente con quanto detto in campagna elettorale, ma la tendenza ad ascoltare quanto suggerito dai cittadini nel voto non è propriamente una caratteristica del PD: ad esempio, dopo la debacle del referendum costituzionale, c’era stato da parte di alcuni l’impegno a cambiare direzione e meditare sugli errori commessi, ma non è successo o almeno pare non essersene accorto nessuno.
Sono 4 anni e più che il Partito Democratico fa l’impossibile perché la parabola di consenso discendente divenga un cerchio, un ripetersi costante degli stessi errori e un alternarsi di sempre nuove sconfitte, alcune epocali come quella del 4 marzo. Ciononostante, nella sua news, Matteo Renzi ha scritto: “Io non mollo. Mi dimetto da segretario del Pd come è giusto fare dopo una sconfitta. Ma non molliamo, […]. Il futuro prima o poi torna”. Chissà, magari un giorno capirà, o almeno speriamolo, che se il “futuro” ha bisogno di tornare, allora forse non era poi così roseo e convincente; è il passato che ritorna con la voce degli stessi uomini, mentre il futuro è avanti ed appartiene di solito a chi dal presente non è mai uscito di scena. Massimiliano Di Paolo