L’adottato ha diritto di conoscere le generalità dei propri fratelli biologici. Lo afferma la Cassazione

Questo il principio che si ricava dalla recente sentenza della Cassazione (n. 6963/2018 sotto allegata), chiamata a esprimersi sulla richiesta di un figlio adottivo che voleva conoscere le generalità delle sorelle biologiche. Il Tribunale per i minorenni e la Corte d’Appello rigettano l’istanza presentata da un soggetto adottato al fine di acquisire le generalità delle sorelle biologiche. A fondamento di tali reiezioni, si sostiene che il diritto di conoscere i legami familiari consista esclusivamente nella facoltà di accedere alle informazioni relative alle proprie origini, limitatamente all’identità dei genitori naturali. Nel caso di specie, il diritto ad avere una relazione con le sorelle soccomberebbe rispetto al diritto alla riservatezza di queste ultime. In altri termini, un’istruttoria preventiva finalizzata all’acquisizione del consenso per l’accesso ai dati, minerebbe gli equilibri connessi allo stato di adottato delle sorelle oltre che agli stessi genitori adottivi.

Il diritto a conoscere le proprie origini è un diritto della personalità, espressione essenziale del diritto all’identità personale. Lo sviluppo di una persona, sia nella propria individualità che nelle relazioni con gli altri, può dirsi realizzato solo se si è in grado di conoscere la propria identità, sia interiore che esteriore. Elementi essenziali dell’identità esteriore sono il nome e la discendenza giuridicamente rilevante. Il riconoscimento della discendenza biologica e, dunque, della parentela più prossima, è l’aspetto più delicato e dibattuto negli ultimi anni. La questione sottoposta alla Cassazione attiene quanto disposto dall’art. 28 Legge 184/1983. La norma da ultimo richiamata prevede il diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini e l’identità dei genitori naturali, senza alcun riferimento alla posizione dei parenti più prossimi come i fratelli biologici. Nello specifico, si distingue a seconda che il richiedente abbia conseguito o meno la maggiore età e altresì se abbia un’età inferiore o superiore ai 25 anni, prevedendo delle limitazioni per accedere alle relative informazioni. La norma disciplina sommariamente l’audizione delle persone interessate e prevede, nel suo ultimo comma, il diniego di accedere ai dati se il genitore biologico abbia manifestato la propria volontà di rimanere anonimo.

L’art. 28 ultimo comma della Legge sulle adozioni (184/1983) prevedeva, come anticipato, la prevalenza assoluta del diritto della madre a restare anonima rispetto al diritto del figlio di conoscerne l’identità. Nel 2012 la Corte Edu, nel caso Godelli c. Italia, condannava quest’ultima dal momento che la norma in questione riconosceva una tutela esclusiva alla posizione della madre, precludendo così qualsiasi bilanciamento rispetto al diverso e, non meno importante, diritto del figlio di conoscere le proprie origini. E’ emerso dunque come il legislatore, riconoscendo esclusiva prevalenza alla posizione della madre, aveva svolto una valutazione ex ante, non consentendo alcun bilanciamento ex post. Nel 2013 interveniva la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 276, dichiarando l’illegittimità della norma nella parte in cui non prevedeva la possibilità per il giudice di ascoltare, su richiesta del figlio, la madre che avesse dichiarato all’epoca del parto di non voler essere nominata. La finalità dell’interpello è di verificare se la volontà della madre sia rimasta quella di rimanere sconosciuta al proprio figlio o, invece, sia mutata. Negli anni immediatamente successivi, il legislatore è rimasto inerte e la giurisprudenza si è divisa. Nello specifico, la giurisprudenza di merito ha talvolta ritenuto che la sentenza della Consulta fosse una pronuncia monito, escludendo così la possibilità di operare qualsiasi apprezzamento in concreto. Diversamente, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che la sentenza costituzionale fosse una pronuncia additiva di principio. Optare per tale ultimo inquadramento comporta che la sentenza della Consulta costituisca un vincolo sia per il legislatore affinché intervenga, sia per lo stesso giudice al fine di garantire l’effettività della tutela.

Questo percorso argomentativo è stato condiviso e fatto proprio dalle Sezioni Unite con la pronuncia n. 1946 dello scorso anno. Si è sostenuto infatti che il mancato intervento del legislatore non può ripercuotersi sul diritto del figlio a conoscere le proprie origini. La norma dichiarata incostituzionale cessa di avere efficacia, come noto, il giorno successivo alla pubblicazione della sentenza. La riserva della potestà legislativa in capo al Parlamento non esclude che il giudice possa esercitare il proprio potere, applicando norme e principi che, soprattutto se vincolanti, sono necessari e indispensabili. Il diritto all’identità personale deve essere bilanciato con il diritto alla riservatezza. In altri termini, il bilanciamento non si attua riconoscendo in capo al giudice un margine di apprezzamento ma si ravvisa in un vero e proprio modulo procedimentale. In mancanza di un intervento legislativo ad hoc, le Sezioni Unite hanno affermato che il procedimento di interpello sarà quello previsto dallo stesso articolo 28 della Legge sulle adozioni, adattato al fine di garantire la riservatezza della madre. L’importanza di questa sentenza deriva dal principio generale che ne deriva: il bilanciamento tra i diritti della personalità di cui si discute deve avvenire attraverso un procedimento riservato di interpello.

 

Fonte: StudioCataldi.it

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