Claudio “Greg” Gregori e la musica rock: un amore inossidabile, impossibile da scalfire e destinato a durare in eterno. Intervistato in occasione dello show tenutosi ieri sera con i suoi Frigidaires all’Estatica di Pescara, l’attore e musicista romano si è lasciato andare a una chiacchierata fiume, con la consueta disponibilità e simpatia che lo contraddistinguono.
Dopo lo show autunnale in compagnia di Lillo, ritorni in Abruzzo, questa volta assieme ai Frigidiaries. In quale veste ti senti più a tuo agio? Quella di showman o di rockstar?
Direi con entrambe, anche se la mia passione più grande resta la musica. Lo definirei il mio habitat più consono, poiché quotidianamente mi dedico a essa, indistintamente all’ascolto e alla composizione di brani o testi da cantare. Occupa gran parte della mia vita, non lo nego. La grande passione per il teatro, alla quale dedico altrettanto tempo ed energie, viene subito dopo. Sarà, forse, perché l’ho sviluppata in un secondo momento e perché mi piace quasi più a livello autorale che interpretativo. Scrivere e creare commedie è stimolante, sai. Mi piace metterle in scena, ma dopo una settimana mi sono già scocciato (ride ndr).
Quando sei sul palco con i Frigidiaries, quanto spazio lasci all’improvvisazione?
C’è una bella differenza tra ciò che accade, o può accadere, a teatro e live music. Nel primo caso non c’è nessun margine per l’improvvisazione, a causa di una struttura narrativa codificata che lo consente in maniera marginale. Durante un concerto, invece, è diverso. Sul palco, si, l’improvvisazione ha un suo ruolo e gioca una sua parte. Ma dipende anche da cosa accade tra il pubblico. Più è partecipativo, più si crea un’alchimia tale da favorire varie improvvisazioni, siano esse sketch o lunghi assoli di chitarra , più semplicemente, simpatiche interazioni coi presenti in sala. Lo stesso vale anche tra noi musicisti, quindi, che sul palco, prima di tutto, ci divertiamo facendo ciò che amiamo.
Negli anni del digitale, dei social network e della corsa sfrenata alla massima libertà d’espressione, che ruolo riveste il rock n’roll? Una volta era la voce della ribellione, adesso, invece, quale è il suo compito?
Mi sembra ovvio che stiamo vivendo un’epoca in cui a farla da padrona è una pseudo mentalità iprocita-liberista. C’è la convinzione di essere più liberi perché si crede di poter fare più cose rispetto al passato e, tutto ciò, solo perché sono più invisibili le griglie che ruotano attorno alla nostra società. Siamo trincerati dietro un muro di ipocrisie, di falsità, di finti buonismi. Ognuno sta da solo e rimugina contro tutti e, coperto dall’astrattezza dei social, pensa di poter dire liberamente la propria opinione. La stessa che, però, si perde nel marasma di parole inutili. Il rock n’roll è ancora un simbolo di libertà, ma ce n’è veramente poco, sia a livello concettuale che a livello commerciale. Basta andare a guardare le classifiche dove è quasi impossibile, specialmente in Italia, trovare qualcosa di rock n’roll. Ogni tanto qualche artista raggiunge delle vette e questo dà un alito di speranza. Ma non è più come una volta, inutile negarlo.
Credi che la musica, non solo rock, stia vivendo una decade di appiattimento? E’ sempre più raro trovare musicisti o band in grado di trasformarsi in icone e impattare sulla nostra società e sulla nostra cultura. E’ parte del processo di cambiamento che vi è in atto o è la musica stessa che non riesce più a produrre quel valore che, invece, l’ha sempre contraddistinta nelle decadi passate?
Domanda difficile. Credo che questa situazione sia figlia dei nostri tempi. Ne è lo specchio. Sebbene vi sia un momento di grande confusione, non è detta l’ultima parola. Può darsi che si arriverà a toccare il fondo per poi risalire velocemente a galla. Devo dire la verità: nei concerti e negli spettacoli che facciamo molti spettatori si sentono coinvolti, anche e, soprattutto, giovani. E questa cosa è positiva. In realtà si è persa la figura del mentore. I giovani non ce l’hanno più in casa né fuori, e neanche a scuola dove c’è un eccessivo lassismo. Pensiamo a tutte le volte che un alunno prende una nota e torna a casa a protestare dai genitori che, a loro volta, si scagliano contro la professoressa. I giovani si trovano di fronte a un’enorme “Bibliteca d’Alessandria” – che è internet – senza sapere esattamente cosa cercare e dove andare a sbattere il naso. Perché? Perché nessuno li guida. E’ tutto ricoperto da una patina di pressappochismo. Non c’è il senso di appartenenza che, invece, prima c’era. Alla fine dei ’60, dei ’70 o anche degli ’80, gli stimoli non sono mai mancati e ognuno aveva una sua identità; una zecca di sinistra, i pariolini a Roma, un metallaro, un newwaver, un punk, un paninaro. Ognuno aveva una propria identità, ecco. Guardiamo alla nuova moda della barba lunga. Il tempo di sdoganarla che ora la indossano tutti. Per la musica è lo stesso.
E poi vi sono i talent show, sempre più fabbrica di prodotti commerciali usa e getta. Credi che distorcano nei giovani la percezione di ciò che la musica realmente è e rappresenta? Cosa ne pensi?
Credo che tu abbia perfettamente ragione. Prendi i Beatles nel 1961, se fossero andati a un talent show avrebbero sicuramente vinto e, altrettanto sicuramente, sarebbero stati portati alla ribalta. Non avrebbero fatto la gavetta, come invece accaduto nel biennio che li ha portati al successo nel 1963. La gavetta è essenziale, fatta di cantine, concertini, meri rimborsi spese e anche delusioni. Tutto questo rafforza e ti sprona a dare il massimo, amando ancora di più ciò che fai. Ora la corsa è al risultato secco e semplice. E’ proprio cambiata la percezione della musica e della voglia di comporre, esibirsi e viverla come un sogno.
Hai citato l’assenza di un mentore, ma tu avverti di avere questo ruolo? Il portare sul palco la musica che ti ha cresciuto e che vivi con passione e dedizione è più di un semplice lavoro. E’, quindi, più gratificante esibire la tua passione o cercare di trasmetterla ai più giovani lasciando loro una vera eredità culturale-musicale?
Certo, lo avverto ed è molto più gratificante trasmettere la mia passione anziché limitarmi a portarla in giro. Quando qualcuno mi rivela che grazie a me ha scoperto una determinata band o un genere musicale o un aneddoto storico, non posso negare di essere entusiasta. E’ importante dare il proprio contributo e influenzare chi è agli inizi. Anche nei miei spettacoli cerco di inserire delle citazioni o dei rimandi alla musica e, proprio per questo, magari qualcuno ha voglia di approfondire. E’ così che funziona, ed è incredibilmente gratificante ed entusiasmante.
In un suo famoso libro Stephen King, attraverso il personaggio principale, racconta di come, tornando indietro nel tempo, se avesse potuto cambiare un avvenimento storico avrebbe scongiurato la morte di Kennedy. Se potessi tornare indietro nel tempo, quale musicista salveresti?
Probabilmente Buddy Holly di cui mi piacerebbe scongiurare la dipartita avvenuta troppo presto, a soli 23 anni. Secondo me avrebbe composto ancora numerose pagine memorabili della musica. In quei pochi anni in cui si è esibito è stato un grandissimo innovatore, partorendo canzoni che già all’epoca suonavano straordinariamente geniali. Lui più di tutti, indubbiamente.
Ultima domanda, la più difficile: chi scegli tra Elvis Presley e Johnny Cash?
Eh…(ride, ndr). Ho conosciuto il rock n’roll attraverso “American Graffiti” e mi sono innamorato di Buddy Holly, Jerry Lee Lewis, Chuck Berry e poi sono arrivato a Elvis Presley che mi è piaciuto molto nei primi anni alla Sun Records e solo qualcosina di quanto scritto nel ’56 e negli anni a venire. Riconosco in lui il ruolo di spartiacque. E’ grazie a lui che molti giovani hanno iniziato a credere nel sogno del rock n’roll. Anche se non è stato necessariamente il primo, è stato quello che più di tutti ha influenzato. Johnny Cash, a sua volta, è stato un pioniere, ha anticipato Bob Dylan nella canzone di protesta, veicolava messaggi forti, anche nel periodo in cui vi era la ricerca della spensieratezza ha esplorato il lato più oscuro dell’essere umano. Alla luce dei fatti direi Johnny Cash, anche perché Elvis l’ho sempre visto un po’ troppo confezionato, a partire dal ’56 con il passaggio alla RCA. Era un rock n’roll troppo vincolato, anche managerialmente.
Nel dubbio, quindi, Buddy Holly è “The King Of Rock n’Roll”?
Ora mi chiedi proprio troppo, non te lo so dire (ride, ndr). Ci vediamo al Summer Jamboree dove sarò presente il 4, l’8 e il 9. Ciao ragazzi, rock on!
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