Nell’autunno del 1974 il mondo si apprestava ad assistere a un incontro di boxe leggendario, entrato di diritto nella storia di questo magnifico sport. Quello tra Muhammad Alì e George Foreman fu un episodio di riscatto sociale in grado di cambiare il volto della società ponendo sotto ai riflettori le problematiche inerenti ai diritti sociali che affliggevano la popolazione afroamericana. A raccontare quei momenti straordinari è Federico Buffa che giovedì sarà sul palco del Teatro Liryk di Assisi con il suo nuovo spettacolo teatrale: “A Night in Kinshasa”. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente per saperne di più. Buona lettura.
C’è stato un momento o un episodio particolare che ha influito sulla tua scelta di portare a teatro la storica notte di Kinshasa?
Ho iniziato a pensarci dopo aver girato il documentario per Sky. Sai, in lavori del genere è facile che restino fuori numerosi spunti e passaggi, specialmente se riguardano personaggi rimasti in mezzo al pubblico per 50 anni. Quando dissi loro che la notte di Kinshasa è stato nettamente il momento più importante della vita di Alì, e che quindi avremmo dovuto approfondirla maggiormente, mi hanno risposto che il tempo non era sufficiente. In quel momento ho realizzato che sarebbe diventato uno spettacolo teatrale. E’ andata esattamente così.
Oltre che un grande campione, Alì è stato un personaggio di inestimabile valore, specialmente per la popolazione afroamericana. Ma qual è il peso specifico che questo match ha avuto sulla sua vita?
Inestimabile, secondo me, è l’unico termine che si possa utilizzare nei suoi confronti. Non potevi descriverlo meglio. Uno come lui è irrepetibile, anche perché non possono tornare gli anni 60/70. Nessun atleta afroamericano si è mai sbilanciato così tanto dal punto di vista dell’impegno sociale. E’ pressoché un miracolo che lui, come moltissimi altri afroamericani che si sono esposti all’establishment, se la sia cavata senza ricevere una pallottola in testa. Ha sempre detto che avrebbe deviato la pallottola (ride, ndr). E’ chiaro che uccidere il campione dei pesi massimi è diverso che uccidere un attivista politico. In relazione a come si è comportato, è incredibile che sia morto di morte naturale.
Era il 1974, ma se contestualizziamo i problemi e le vicissitudini inerenti a sport e società di quei tempi, possiamo affermare che a distanza di più di 40 anni non sia cambiato nulla..
E’ ciò che dice anche LeBron James, il primo a twittare il giorno della sua morte. James ha sempre sostenuto l’importanza di Alì. A nessun afroamericano prima di lui era passato per la testa di rendere pubblico e contestuale anche la celebrazione dell’atto sportivo. Lui è stato il primo a farlo, spianando la strada a tutti quelli venuti dopo. Alì è stato l’uomo più influente della storia degli afroamericani, nonostante la sinfonia di contraddizioni che è stata la sua vita. Il problema, come dice James, è che sono passati 50 anni e stiamo discutendo delle stesse cose di cui discuteva lui. Non è pensabile che a 50 anni di distanza non sia cambiata una virgola. LeBron è l’unico afroamericano che si sta esponendo..
Lo stesso LeBron ha creato una sorta di movimento assieme a Paul, Anthony, Wade..
Esattamente. Non è casuale, credimi. Recentemente una giornalista di ESPN gli ha detto testuali parole: “Devi limitarti a palleggiare e tirare un pallone”. Nel 2018 è una assolutamente inaccettabile. Siamo ancora a 50 anni fa. E’ lo stesso trattamento che Cassius Clay ricevette quando dichiarò che non era interessato alla guerra del Vietnam.
Raccapricciante..
Hai usato il termine più corretto. Non c’è da aggiungere altro. C’è un momento in particolare, quando l’altro grande atleta afroamericano del ‘900, vale a dire Michael Jordan, afferma: “anche i Repubblicani comprano le scarpe”. In quel momento l’effetto Alì si ferma. L’altro sportivo di colore che sta dominando il mondo decide che è giunto il momento in cui non può prendere posizione. E’ diventato un brand mondiale. Alì non avrebbe mai detto una cosa del genere, anche perché negli anni ’90 era diverso. Ad Alì non interesserebbe conoscere i gusti in fatto di scarpe dei repubblicani. Sarebbe preso, invece, dal sapere che una giornalista, nel 2018, abbia detto ciò che ha detto a LeBron James. Perché allora sarebbero passati 50 anni per niente. Non scordiamoci che Alì diceva sempre: “se a 50 anni pensi ciò che pensavi a 20, allora hai buttato via 30 anni della tua vita”.
Sarebbe interessante chiederglielo adesso, però..
Si, è vero. Negli ultimi anni della sua vita, provato dalla malattia, aveva grosse difficoltà a dire ciò che pensava. Lucido mentalmente ma non verbalmente.
Alì ha avuto il potere di influenzare la società a stelle e strisce (ma non solo quella, a dire il vero) attraverso lo sport. Avrà mai un erede?
No, è impossibile. L’obiettivo dello spettacolo, infatti, è quello di spiegare ai ragazzi di oggi che il coraggio politico non è morto. Non possiamo sempre pensare che ci sia qualcuno che si batta.
La vitale importanza delle parole. Al giorno d’oggi, però, la percezione delle stesse è differente rispetto al passato, anche per via di un utilizzo sfrenato e disilluso dei social network. In questi anni fare arrivare un messaggio è molto più complesso..
Questa è la chiave di tutto, bravo. La comunicazione di allora era un cinquecentesimo di quella di oggi. La domanda a cui non voglio mai rispondere, infatti, è: “Come sarebbe Mohammed Alì nell’era della comunicazione digitale?”. La risposta è: non lo so, non posso saperlo. Voglio immaginarlo per ciò che è stato all’interno di quel mondo e come si è battuto per esso. Mi mette in difficoltà proprio ciò che stavi dicendo tu adesso. E’ difficile arrivare a un ragazzo contemporaneo facendogli capire cosa Alì dicesse e volesse raggiungere. Non ci sono le giuste connessioni e non so se un ragazzo di oggi riesca davvero a immaginare cosa quel pugile avesse inteso dire, rompendo con la politica, con la società e manifestando un coraggio e una determinazione fuori dal comune e per questo pericolosa. Oggi nessuno farebbe una cosa così.
C’è un altro problema: la pigrizia nel far proprie leparole. Un conto è capirle, un altro è metterle in pratica..
Assolutamente si. Però ti faccio un esempio. Il film Black Panther è abbastanza significativo. Sono andato a vederlo al cinema (lo rivedrei 10 volte) e mentre assistevo alla proiezione alcuni ragazzi al mio fianco non avevano assolutamente compreso il messaggio dietro la pellicola. Erano troppo presi dal vedere i loro supereroi. Un afroamericano sa cosa vogliono dire quei dialoghi, un ragazzo italiano no. In pochi cercano di capire cosa c’è dietro quel film, senza capirne il senso. Di questo ne ho sofferto, lo ammetto.
E’ pur vero che il mondo dello sport non dà il giusto peso a queste dinamiche. Fatta eccezione per la NBA che è la lega più attiva al mondo a tal riguardo.
La NBA è palesemente la lega più avanzata del pianeta in fatto di diritti civili. Non è un caso che abbiano la lega femminile, che le donne facciano gli arbitri, che molti omosessuali, sia giocatori che dirigenti, abbiano fatto coming out. Questo è del tutto normale, sono nettamente più avanzati.
In conclusione: essere considerato lo storyteller più autorevole in Italia è motivo di orgoglio e prestigio. Allo stesso tempo è motivo di grande responsabilità?
Non mi sento per niente il primo e, quindi, non la vivo come tale. Non ho tutte queste preoccupazioni (ride, ndr)
Federico Falcone