Un pezzo di teatro teorico, di pura parola, giocato esclusivamente sul dialogo – sui massimi sistemi del mondo, verrebbe da dire. Un testo denso, concettoso come quello di Frayn ha bisogno di attori brillanti per arrivare vivido agli spettatori; superfluo precisare come Umberto Orsini (Niels Bohr), Giuliana Lojodice (Margrethe Bohr) e Massimo Popolizio (Werner Heisenberg), tutti e tre fuoriclasse, siano riusciti impeccabilmente nell’impresa. Nonostante tutto – nonostante l’incessante disputa scientifica tra Heisenberg e Bohr, nonostante le formule matematiche che riempiono i pannelli della scenografia, nonostante lo spettro incombente della bomba atomica – Copenaghen non è uno spettacolo sulla fisica; almeno, non completamente. Copenaghen è uno spettacolo sull’umanità. Innanzitutto l’umanità perduta delle tre figure sulla scena: fantasmi grigi che si aggregano e si disperdono su un palco quasi completamente vuoto, cercando invano di ricordare. “Perché, perché Werner Heisenberg si è recato a Copenaghen?” continua a chiedersi Margrethe Bohr, incapace di darsi una risposta. E perché quella visita ha segnato la fine della stretta amicizia – paragonabile a un rapporto padre/figlio – dell’anziano maestro Bohr con l’astro nascente Heisenberg? Come ci insegna la fisica quantistica (e il principio di indeterminazione che porta il nome dello stesso Heisenberg) la risposta non può essere completa e univoca, ma va sventagliandosi in una serie di ipotesi. Sulla scena, Heisenberg e i coniugi Bohr le vaglieranno tutte, giocando con il tempo, lo spazio e la parola, la vita e la morte, nel tentativo di assemblare, dal caos, un unico cristallo di verità. Ma sarà la natura stessa delle cose – e delle persone – a impedirlo.
Francesca Trinchini