Com’eri vestita? A Milano va in scena una mostra per combattere luoghi comuni legati alle vittime di stupro

Il tema della violenza sulle donne è un fenomeno che, benché sempre esistito, con l’avvento dei social media ha una cassa di risonanza maggiore. Lo sappiamo, è così.  Ma spesso, grazie a questi strumenti, si è potuto sopperire a una giustizia che troppe volte finge di non vedere o che decide di agire quando è  troppo tardi. Nell’ultimo periodo, dopo lo scandalo Winstein, si respira un’aria diversa, però, principalmente perchè un intoccabile – o presunto tale – è stato distrutto dal coraggio di alcune donne. Purtroppo, però, c’è ancora molto da fare per dare a queste ultimo il rispetto che meritano. Quante volte ci è capitato di leggere sotto una notizia di stupro o di molestie commenti che mettevano in dubbio la moralità delle vittime? Quante volte abbiamo letto o sentito “pareri” sul come una donna era vestita in quel momento?  “Se l’è cercata, portava una minigonna” oppure ”le ragazze di oggi sono troppo provocanti, non per giustificare lo stupro, ma sono troppo nude”. Commenti che fanno spesso più male del reato stesso, perché dimostrano quanto sia ancora ipocrita e bigotta la nostra società, dove in alcuni paesini abbiamo assistito a ragazze stuprate messe alla gogna dal paese intero, dove la donna ancora è vista troppo spesso come un oggetto o uno strumento per appagare i più bassi istinti dell’uomo.

Per sfatare questi luoghi comuni alla casa dei diritti di Milano è stata allestita una mostra: Com’eri vestita? dove i vestiti esposti come un pigiama, una tuta un semplice jeans con una maglietta, rappresentano quelli indossati dalle vittime di stupro, sono accompagnati dai brevi racconti delle vittime: “Eravamo al mare, cercavo l’amore, il primo amore, ma tu mi hai giudicato per come ero vestita e ti sei sentito autorizzato“. Le parole scritte da una sopravvissuta, forti, come un pugno nello stomaco. L’esposizione  resterà aperta fino al prossimo 21 marzo, prende ispirazione dalla poesia “What I was Wearing” di Mary Simmerling, che Mary Wyandt-Hiebert, docente alla University of Arkansas, e da Jen Brockman, direttrice del Sexual Assault Prevention Center presso la University of Kansas,hanno sviluppato nel 2013 in un’istallazione artistica dal titolo “what were you wearing?”

Come spiega l’organizzatrice della mostra Francesca Scardi, terapeuta e fondatrice della cooperativa cerchi d’acqua: “ci sono alcune storie che arrivano dalle colleghe americane, le parole delle ragazze che subiscono violenza all’interno dei campus, cui noi,abbiamo abbinato dei vestiti in base ai loro racconti. Poi abbiamo chiesto alle donne che frequentano i nostri gruppi di auto aiuto se avevano voglia di partecipare a questa mostra, anche perché per loro poteva essere un pezzo importante di un percorso di elaborazione del trauma, e ci hanno mandato brevi frasi in risposta alla domanda Com’eri vestita?”. L’idea della mostra è quella di dimostrare che non è l’abbigliamento che genera violenza, perché ci sono pigiami, jeans, magliette e purtroppo anche vestiti da bambina, quegli indumenti, quei racconti stanno li a dimostrare che le parole sono importanti, la violenza sessuale non è mai colpa della vittima, che spesso purtroppo si ritrova sola, giudicata anche da chi, piuttosto, dovrebbe tendergli una mano, supportarla aiutarla ad uscire da un incubo, a ricostruire la propria anima sfregiata, calpestata da chi pensava di essere in diritto di prendersi quello che voleva, che desiderava come si fa con gli oggetti. Speriamo che questa mostra smuova molte coscienze e ci faccia riflettere tutti prima di pronunciare parole, scrivere commenti decisamente troppo superficiali. Domenico Corsetti

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