È il 1976. Richard Dawkins, biologo evolutivo, etologo, membro della Royal Society nonché professore a Oxford, pubblica un libro destinato a rivoluzionare l’interpretazione comune della teoria evoluzionistica di Charles Darwin, 117 anni dopo l’uscita de L’origine delle specie. Si tratta de Il gene egoista, e la teoria che mira a esporre è tanto inquietante quanto affascinante: tutti gli esseri viventi, umani inclusi, sono macchine da sopravvivenza fabbricate ad hoc dai geni. Perché? L’unico obiettivo del gene è quello di preservarsi, moltiplicarsi e prosperare, a discapito degli altri geni: perciò, anche se il gene non ha una coscienza e una volontà, possiamo descrivere metaforicamente il suo comportamento come “egoista”. Dawkins ha ribaltato la nostra prospettiva: non dobbiamo guardare all’evoluzione dal punto di vista del singolo individuo, ma da quello del gene.
L’eventualità di non essere altro che dei ricettacoli passivi per il nostro materiale genetico ci sgomenta. Ma qualcosa che differenzia gli esseri umani dalle altre specie c’è: la cultura. Da qui nasce una delle idee più intriganti e feconde del libro: e se l’informazione culturale si trasmettesse e si evolvesse come l’informazione genetica? La cultura umana, sostiene Dawkins, è un brodo primordiale che ha visto la nascita di un tipo nuovo di evoluzione: il processo è simile, ma le unità coinvolte non sono più frammenti di DNA, bensì “melodie, idee, frasi, mode, modi di modellare vasi o costruire archi” e molto altro ancora. Queste unità di informazione culturale si chiamano memi. La parola “meme” è affine al greco “mìmesis” – perché un meme si trasmette essenzialmente per imitazione – e al francese “même”, o ancora a “memory”. Oltretutto, è un bisillabe che suona come “gene”.
(Prima di proseguire, una precisazione: se la considerate una parola inglese, “meme” fa rima con “dream” e il suo plurale è “memes”. Se la italianizzate, si pronuncia come si scrive e il suo plurale è “memi”. Qui indicherò come “memi” quelli teorizzati da Richard Dawkins e come “memes” quelli tipici della cultura di internet. Ma andiamo per ordine.)
Dawkins non è stato il primo a ipotizzare che la cultura umana si potesse evolvere in stile darwiniano. Ma è stato il primo ad associare il comportamento del meme a quello del gene egoista. Un meme, infatti, lotta per la propria sopravvivenza, compete con altri memi per l’accesso al tuo cervello – che è il suo terreno di coltura – e si trasmette da individuo a individuo per imitazione. E tutto ciò solo per il proprio tornaconto: preservarsi, moltiplicarsi e prosperare. Modi e mode di mangiare e di vestire, cerimonie, leggi, usanze, canzoni, tecnologie, leggende, persino le religioni e soprattutto il linguaggio: se sono immagazzinati nei cervelli umani e si diffondono per imitazione, possono essere considerati memi. Susan Blackmore, pioniera della memetica, ha affermato: “Ogni cosa che hai imparato da qualcun altro attraverso l’imitazione è un meme”. Dawkins ha paragonato i memi a dei virus che trasformano i cervelli che infettano in veicoli per la propagazione del meme stesso. La parola chiave è “virus”: per cosa viene usato più spesso l’aggettivo “virale” oggi? Di solito, per i video stupidi su YouTube. Ed è qui che subentra il meme inteso come fenomeno di massa che ha internet come terreno di coltura: l’internet meme, appunto.
Se frequentate i social network, sarete sicuramente inciampati in almeno un internet meme. Può essere considerato tale ogni immagine, video, link, tormentone, leitmotiv, battuta, fotomontaggio, hashtag, remix, parodia, errore di pronuncia o di ortografia eccetera, che viene sfruttato e rielaborato, solitamente a fini umoristici, da migliaia di utenti per migliaia di volte (finché non passa di moda o smette di far ridere) e che si diffonde attraverso la condivisione online. Ogni meme ha il suo format, la struttura che lo contraddistingue. Il gioco sta nel riproporre – con un’immagine, un video o un post – un certo format mantenendone la forma ma alterandone il contenuto (la battuta, in pratica): e il meme è servito.
Ad esempio, un tipo di internet meme molto elementare consiste in una battuta umoristica sovrapposta all’immagine della persona o del personaggio alla quale è attribuita. Il testo, generalmente in font “Impact”, è spesso disposto su due righe, una in alto e una in basso. Questo schema sintetizza in un’unica vignetta i tre livelli di una battuta (cornice, racconto e punchline, cioè il ribaltamento di situazione che scatena l’ilarità). Facciamo un esempio: un meme molto popolare riguarda l’attore Chuck Norris, al quale vengono iperbolicamente attribuite qualità divine e capacità sovrumane, che sovvertono il senso comune e le leggi della fisica. Un meme su Chuck Norris è strutturato così: la base è una foto di Chuck Norris che in questo contesto funge da cornice, cioè ci fa capire di chi stiamo parlando e quale tipo di battuta ci possiamo aspettare. Testo in alto, il racconto: “Chuck Norris ha un orso grizzly come tappeto nella sua stanza”. Testo in basso, punchline: “Non è morto, ha solo paura di muoversi”. L’utente ride, mette like, condivide, e se si sente particolarmente creativo si serve di quello stesso format per fare un’altra battuta su Chuck Norris: “Chuck Norris ha vinto le World Series of Poker… con le carte dei Pokémon”. Ed è così che il meme si replica per imitazione, esattamente secondo la teoria di Dawkins e Blackmore.
In realtà i memes su Chuck Norris sono terribilmente antiquati, essendo nati nel 2004, e ora non sono più popolari. I memes attuali (detti in gergo dank memes) sono molto più complessi e presuppongono una certa familiarità con la galassia di internet. Alcuni si sono ripiegati nell’anti-umorismo, il surrealismo, il nonsense, il nichilismo, come in una sorta di neo-dadaismo o di gusto dell’assurdo. Una cosa è certa: gli internet memes sono una delle forme espressive più caratteristiche dell’era digitale. Chissà se tra qualche migliaio di anni un filologo si troverà a decifrare un meme su uno Shiba Inu?
Francesca Trinchini