Ebbene si, anche io, come molti di voi, ho ceduto al tormentone “La Casa di Carta” e ho iniziato a vedere la serie tv del momento. E, esattamente come molti di voi, ho da poco terminato la visione della seconda stagione. Come dite? Descriverla con un solo aggettivo? Beh, è più facile di quanto sembri. Non potrei che definirla sensazionale. Già, perchè se la prima mi aveva letteralmente rapito grazie a una trama solo apparentemente semplice (con una componente ideologica-concettuale affascinante) ma ricca di colpi di scena, momenti di tensione altalenante e, perchè no, anche suggestive citazioni ad altre serie tv e film d’autore, la seconda è ancora più coinvolgente della prima. Non solo viene maggiormente approfondito il lato umano dei personaggi celati dietro la maschera di Dalì – e, questo, favorisce l’empatizzare con loro affezionandosi a vicende più o meno drammatiche e alle loro peripezie da ottovolante himalayano – ma la storia subisce un’evoluzione costante che sfocia in un ritmo tale da lasciare lo spettatore senza fiato. Per tutti gli amanti dell’action movie e dell’heist movie, insomma, è stata una manna dal cielo. Come lo fu Prison Break, senza il quale, molti dei risvolti de “La Casa De Papel”, non sarebbero mai esistiti. Michael Scofield ha fatto scuola.
La serie tv spagnola, però, pur se entusiasmante, non manca di richiamare tutti i clichè del caso. A ogni azione corrisponde una reazione e a ogni mossa corrisponde una contromossa. Tutto già visto e, in parte, largamente prevedibile. Ma, in fondo, cosa volete che sia se tutto scorre liscio come l’olio senza risultare chissà quanto pesante o di difficile sopportazione? Lungi, però, dal voler dare un giudizio tecnico sulla trama della storia, o sull’ortodossia con la quale viene sciorinata poniamo, invece, l’attenzione sul finale della serie. Che, però, dopo l’annuncio di una terza stagione, finale non è più. Non per ora, almeno. Facciamo un piccolo passo indietro. Quanti di voi, prima di questo annuncio, avevano abbracciato l’idea che, per un caso rarissimo – quasi isolato – una serie tv si potesse concludere nel modo in cui nessuno credeva, anche se in cuor suo lo sperava? Quanti di voi, dopo aver assistito allo scoppiettante finale, avevano sbarrato gli occhi increduli davanti al colpo compiuto? Quanti di voi, insomma, avevano affermato: “cavolo, ce l’hanno fatta davvero!” ?. D’altronde, per usare un concetto tanto caro al Professore, chi tifereste in una partita tra Brasile e Cameroon? E, quindi, partendo da questo presupposto, perchè non entusiasmarsi all’idea che la degna conclusione potesse essere l’unico risvolto che, secondo i canoni e i clichè delle serie tv e di una semplice e lineare sceneggiatura, era da escludere? Siamo sinceri, la seconda, e in principio ultima, stagione, de “La Casa De Papel” si congeda nell’unico modo in cui avrebbe dovuto concludersi per non risultare scontata, banalotta e tristemente derivativa. Il Professore e i suoi compagni vincono, lo Stato spagnolo e la polizia perdono. Con Berlino (tra i personaggi meglio riusciti grazie all’interpretazione sugli scudi di Pedro Alonso) autentico mattatore della rapina, che si immola per la causa sacrificando il suo enorme ego per consentire ai compagni di mettersi in salvo, determinando, così, la riuscita del piano di fuga. E’ un gentiluomo, lo ha sempre detto. E in ultimo, prima che cali il sipario, c’è spazio anche una love story fragile, sempre sul punto di fallire, ma dal lieto fine: l’incontro tra l’ispettore Murillo e il Professore, stavolta liberi di amarsi.Anche questo era il meglio che ci si potesse attendere da una trama il cui finale non fosse già scritto con decine di puntate di anticipo.
E ora che succederà con la terza serie? Cosa dobbiamo attenderci? Il regista Jesus Colmenar sulle ali dell’entusiasmo l’ha già definita brutale. Ma prima di rispondere a queste domande ne sorge un’altra ben più decisiva: ne avevamo davvero bisogno? Dopo aver elogiato la conclusione della seconda stagione, da quali basi ripartire per generare nuova affezione alle prossime puntate? Scelta, questa, che ha già diviso il numeroso pubblico di Netflix e che, a ben vedere, non è esente da critiche. Ricordate quando gli autori di Prison Break furono letteralmente messi in croce e subissati di insulti e critiche per il modo con cui conclusero la serie? Bene, allora ricorderete anche di come furono costretti a ricorrere a “The Final Break” per gettare acqua sul fuoco e tentare di recuperare credibilità. Ecco, non vorremmo trovarci di fronte a una situazione analoga. Certo, ogni fan innamorato dei suoi personaggi preferiti, delle storie complesse, imprevedibili e dai contenuti potenzialmente illimitati, avrà di che strofinarsi la mani, questo non è da escludere. Maperchè non accontentarsi di quanto fatto e dello straordinario successo ottenuto? Perchè rischiare di rovinare un titolo che genera interesse e coinvolgimento in tutto il mondo? Logiche commerciali? Può darsi! Voglia di superarsi? Può darsi! Tentare di fare il salto della quaglia? Può darsi! In questo ambaradan di incertezze l’unica garanzia è costituita dal giudizio del pubblico che, come raramente mi è capitato di assistere, è realmente spaccato in due su questa scelta. Ai posteri, ma speriamo anche a noi, l’ardua sentenza.