Sessanta pullover blu, tutti rigorosamente a girocollo, altrettante camicie a quadri. Il tutto equamente distribuito tra le due sponde dell’Oceano Atlantico, tra l’Italia e gli States, le sue due case, le due facce di quella medaglia che lo vuole italiano d’America, ponte ideale, generazionale e manageriale tra passato, presente e futuro di una delle nostre più grandi aziende. Diverso, audace, decisionista, divisivo, sobrio. Mi permetto di descrivere così l’uomo Sergio Marchionne.
Con lui se ne va ciò che resta dell’italianità del Gruppo FCA, lo stesso che ha plasmato in questi 14 anni che lo hanno visto al vertice della compagnia. Fu l’insospettata scommessa rivelatasi vincente di Umberto Agnelli che pose su di lui nel 2004 l’enorme responsabilità di ristrutturare una Fiat sull’orlo del default. La sottrasse dalle grinfie di General Motors e la riportò in meno di 24 mesi all’attivo di bilancio tramite un piano di tagli senza precedenti. Di lì fu storia, con l’incorporazione dell’allora morente colosso Chrysler, una delle vittime illustri della crisi finanziaria americana nonché fiore all’occhiello dell’industria automobilistica a stelle e strisce: un’operazione lungimirante e ambiziosa, facilitata dalla stessa amministrazione Obama, che plasmò un nuovo soggetto industriale multipiattaforma, capace di quintuplicare produzione ed utili rispetto alla sommatoria della situazione iniziale di ambo i gruppi. Nel mentre le battaglie sindacali lo videro in prima linea attraverso un clamoroso braccio di ferro durato due anni e culminato con i referendum di Termini Imerese e Pomigliano d’Arco, vinti sul filo di lana dalla sua proposta che aveva come concetto di base quello di uscire dai dogmi e paletti della contrattazione nazionale per privilegiare una contrattazione d’azienda ma che celava, neppure troppo sommessamente, la necessità di uniformare le condizioni contrattuali italiane a quelle americane, stante la globalizzazione del marchio giunta alla sua fase finale con la creazione di FCA, prodromica alla quotazione della Ferrari a Wall Street e all’uscita dell’intero gruppo da Confindustria. Da appassionato di motori, le immagini più vivide che ho di lui sono quelle della conferenza stampa di Maranello datata 2014 nella quale, senza troppi giri di parole, apostrofò gli ultimi anni della Rossa in Formula 1 come vissuti “alla carlona”, dando un pubblico e decisamente poco conciliante benservito a quello stesso Luca Cordero di Montezemolo che fu il suo Cicerone nei primi anni in Fiat. Non rimasi stupito, affatto. Come i grandi, unisce sapendo e dovendo anche dividere, rovesciando il tavolo se necessario, senza preavviso, senza preamboli. Del resto, anche il suo rapporto con la politica è stato caratterizzato da continui alti e bassi, dai plausi a Monti e Renzi alla loro abiura, dallo stretto rapporto con Obama alla visita alla casa bianca di Trump a sostegno della sua riforma fiscale.
Questo cerchio si è chiuso alla perfezione lo scorso 26 giugno con la consegna ai Carabinieri di una Jeep customizzata. Lui, figlio di un Carabinere, nato in Chieti e andato in Canada da ragazzino per inseguire “il sogno”, dona al corpo militare più simbolico del nostro Paese una vettura che è l’emblema della produzione americana, fondendo in una metafora perfetta tutta la sua esistenza. Non so se abbia fatto questo gesto pensando a tutto questo, probabilmente no. A me, però, piace pensare di si.
Antonio Rico