A cosa serve il latino? Perché non sostituire il latino nei licei con una materia più “utile” come il cinese o l’economia aziendale? “Tanto ormai si parla solo inglese, bisognerebbe ridurre anche le ore di italiano, figurarsi quelle di latino”. Il dibattito sull’in/utilità delle lingue morte si riapre a cadenza semestrale, solitamente in seguito alla pubblicazione delle statistiche del MIUR sulle iscrizioni alle scuole superiori, che decretano la crescita o il calo di iscritti a questo o quel tipo di istituto. Non mancano mai, in dibattiti del genere, i polemisti che sparano a zero sull’insegnamento del latino e del greco. A ogni azione, però, corrisponde una reazione uguale e contraria e contro ogni polemista è pronto a schierarsi un paladino delle humanae litterae che fieramente proclama: “guardate che il latino serve a esercitare la logica”. Tradurre Cicerone è come fare un sudoku! Infatti, chi esce dal liceo classico se la cava benissimo a ingegneria (tutto merito di Tucidide). E poi, se studi giurisprudenza o scienze politiche, troverai tantissime espressioni latine, tipo alibi o referendum. Ed ecco a cosa serve il latino!
È inevitabile che lo studio del latino abbia qualche vantaggio pratico. Se non altro consente di comprendere le strutture profonde della lingua italiana. Ma chi si affanna a giustificare la presenza del latino nei programmi scolastici appigliandosi a questi (indiscutibili, ma tutto sommato marginali) vantaggi, non fa che abbassarsi al livello del polemista di turno e a giocare il suo gioco. È come dire: “Dato che ogni cosa deve essere rivolta a un profitto, ecco una lista di applicazioni pratiche della lingua latina”. Non è questo il punto. Il punto è: perché ogni cosa dovrebbe essere rivolta a un profitto? Cercare di ridurre il latino alla sua utilità lo snatura, lo rende odioso e nozionistico. Quindi, proclamiamolo senza paura: il latino non serve a niente, il latino è inutile! Inutile ma necessario. Non studiamo il latino – e il greco, e la filosofia, e Dante – perché ci è utile. Lo facciamo perché ne abbiamo bisogno.
Molti dei paladini che difendono a spada tratta lo studio delle lingue morte amano dire che il latino e il greco “aprono la mente”. In parte è vero, ma non nel senso che intendono loro. Chi conosce il latino (e/o il greco) non è necessariamente “aperto” né tantomeno capace soltanto in virtù della sua familiarità con le lingue classiche. Ma ha un indiscutibile privilegio: quello di poter attingere direttamente, senza bisogno di intermediari, allo sterminato patrimonio culturale che ha scelto come veicolo privilegiato proprio la lingua latina. Come si può pretendere di esplorare le profondità della civiltà classica ed europea senza conoscerne la lingua? Attenzione però: lo studio della lingua latina non è soltanto propedeutico all’apprendimento di un altro tipo di conoscenze, che siano letterarie, filosofiche o storiche. La lingua latina è parte integrante di queste discipline, perché ne è l’espressione. In greco, “pensiero” e “parola” sono entrambi logos: la forma (il linguaggio) e il contenuto (il pensiero) sono inscindibili. Sostiene il latinista Ivano Dionigi, già rettore dell’Università di Bologna, che una delle lezioni che il latino ci ha lasciato sia quella del “primato della parola”: ogni parola latina è potente e sintetica. A differenza del greco, dove fin dalle origini si intrecciano poesia, profezia e filosofia, il latino è una lingua di soldati e di contadini – un po’ come l’inglese, che è una lingua di marinai. Il latino è denso e vigoroso come il vino che Orazio amava cantare. È la lingua della concretezza. Molte parole che in italiano sono astratte, in latino sono res, cose: la cosa pubblica, lo Stato; la cosa militare, la strategia; la cosa rustica, l’agricoltura. Ogni lingua rispecchia le urgenze autentiche del popolo che la parla, e non si può dire di conoscere una civiltà senza conoscerne la lingua. Se ignorassimo il latino, non potremmo considerarci pienamente italiani ed europei. Il latino, oltre le versioni da tradurre e i paradigmi da sciorinare, ci può dire qualcosa su quello che siamo e sulla nostra storia, passata e futura. Quindi, per una volta, smettiamo di misurare il latino (ma anche il greco, la letteratura, l’arte, la filosofia) secondo i parametri del prezzo, e iniziamo a considerarli sul piano del valore.
Francesca Trinchini