Col passare delle settimane, è lecito essere assaliti dal dubbio che il PD non sia più un partito, ma grossomodo una compagnia teatrale. Precisamente, una compagnia teatrale in cui tutti studiano un copione fatto di battute uguali e ripetute, scritto con perizia dallo Shakespeare di Rignano sull’Arno: il drammaturgo (fallito) Matteo Renzi. Come ogni pessimo autore, il nostro “statista” (le virgolette sono necessarie) si preoccupa che la tragedia abbia un andamento elegante, patetico; si preoccupa di poterne essere sempre compiaciuto, ma non si cura mai della cosa più importante: compiacere. Il suo dramma infatti è troppo scarno: non solo tutti i personaggi hanno le stesse battute, ma le ripetono con metrica di “bottigliate sotto-inguinali tafazziane”.
Abbiamo allora Matteo Orfini che recita in tono grave: “Noi staremo all’opposizione!”; poi Graziano Delrio che, tonante, fa: “Gli italiani ci vogliono all’opposizione, nessun accordo con nessuno!”; poi ancora, in tono macbethiano e vagamente boldiano, Ettore Rosato che cattura gli occhi degli spettatori con un profondo e gutturale: “Il PD starà all’opposizione!”. Non c’è che dire: il poro Shakespeare di Rignano ha scritto un mantra più che una narrazione. Ma all’improvviso, inaspettata quanto lo è un’intuizione nella mente di Daniela Santanchè, si fa strada sul palcoscenico una svolta non scritta: due personaggi, dopo tempo, spezzano la monotonia. Dario Franceschini dice: “Riuniamo deputati e senatori prima delle consultazioni, discutiamo!”. Dopo di lui, Andrea Orlando prende parola, drammatico: “Non basta dire tocca a loro. Col Movimento Cinque Stelle il dialogo è doveroso!”. A questo punto, lo sconquasso comincia a far capolino. La sensazione di confusione riverbera come quella sul volto di un Antonio Razzi che, ad un “lei” rivoltogli con garbo, risponde laconicamente: “lei chi?!”. Sul palcoscenico il dramma renziano sembra iniziare a scricchiolare. Maurizio Martina, per il pathos generato, come un Niccolò Ghedini difronte ad Ilda Boccassini, ruggisce felino tra un “miao” e un altro e tenta di ristabilire la “monodia”, aiutato malamente da un Matteo Orfini distratto dalla reunion di Dawson’s Creek (e questa è vera, guardate l’ultima puntata di Propaganda Live).
Nonostante due sole voci ribelli, all’apparenza troppo poche per cambiar davvero il dramma, qualcosa nell’aria sembra mutare. Già qualche giorno fa, Matteo Richetti ha annunciato la sua improvvisa candidatura alla segreteria del partito. Quest’ultima svolta potrebbe essere una prova di forza contro il comando renziano: tra Richetti e Renzi c’è infatti un rapporto molto particolare. Intanto, come ogni pessimo drammaturgo, lo Shakespeare di Rignano offre un elemento di svolta poco brillante: avvia una corrispondenza con il leghista Giancarlo Giorgetti, destando il sospetto di un appoggio ad un governo di centrodestra eventualmente guidato proprio da quest’ultimo (come riportato in un pezzo di Wanda Marra su Il Fatto Quotidiano del 30 marzo). Successivamente alla caduta del giullare di Arcore che anni fa giunse sperata, dopo poco tempo (con un Mario Monti ed un Enrico Letta di mezzo) sedette sul suo scranno lo “statista” di Rignano, a farci compagnia. Chissà adesso, dopo Paolo Gentiloni (chi?!), a chi toccherà. Non c’è che dire, fin qui siamo stati fortunati. E qualora oggi foste in viaggio e vi steste chiedendo se altrove nel mondo si può assistere ad un simile spettacolo – beh – “zittite” la vostra curiosità e siate orgogliosi: questo dramma è solo nostro.