Nel cuore di Roma, le Scuderie del Quirinale presentano la mostra “Hiroshige. Visioni dal Giappone”, aperta fino al 29 luglio. Ma perché recarsi a Roma – il centro della civiltà occidentale – per omaggiare un maestro giapponese della prima metà dell’800, i cui canoni filosofici e artistici sono così distanti da quelli sui quali Roma stessa è fondata? Me lo sono chiesta quando, all’uscita della mostra, ho potuto godere di una vista mozzafiato sulla città di Roma dalle vetrate panoramiche delle Scuderie. Mi sono poi risposta: perché un europeo, a maggior ragione se italiano, è spesso talmente rapito dalle bellezze nelle quali è immerso da dimenticarsi che esistono anche altri modi e altri mondi dell’arte. L’ukiyo-e giapponese è uno di questi. E della filosofia del Mondo Fluttuante proprio Hiroshige è stato il massimo interprete, assieme al più anziano Hokusai – che tuttavia è più conosciuto in Occidente grazie alla sua Grande Onda, simbolo universale dell’arte figurativa giapponese. Quello di Hokusai è un genio sregolato e dirompente, burrascoso come quello delle sue tempeste. Hiroshige, più giovane di lui di trent’anni, ne subisce la fortissima influenza, ma non desidera meramente imitarlo, bensì emularlo: al successo strepitoso delle Trentasei vedute del Monte Fuji di Hokusai (1830-32), Hiroshige risponde immediatamente con le sue Cinquantatré stazioni di posta del Tokaido (1833-34), nelle quali emerge compiutamente tutta la sua poetica, non dissimile eppure opposta a quella di Hokusai. Dove l’anziano maestro è impetuoso e sopra le righe, Hiroshige si mantiene pacato, armonioso. Noi occidentali potremmo dire che Hokusai sta a Hiroshige come Catullo sta a Orazio; l’impeto appassionato di un romantico – nei margini dell’eleganza nipponica, naturalmente – contro la disciplina di una laboriosa ape del Matino. Non mancano tuttavia a Hiroshige alcuni guizzi di puro genio: un aquilone trascinato dal vento, i punti bianchi delle stelle, alberi neri e sottili come ideogrammi, campiture opache come silhouette delle case immerse nella nebbia del mattino. Non a caso Hiroshige è stato soprannominato “il maestro della pioggia e della neve”, ma, a differenza delle burrasche di Hokusai, i suoi temporali (come l’Acquazzone ad Atake che Van Gogh copiò scrupolosamente) risultano paradossalmente tranquilli: dinamici nella resa naturalistica del soggetto, ma equilibrati nella composizione. Come è possibile? Il segreto di Hiroshige è una verità Zen: la fusione degli opposti, che in arte è l’alternanza tra i pieni e i vuoti, lo statico e il dinamico. Questo principio si realizza superbamente nell’ultimo suo capolavoro, le Cento vedute di luoghi celebri di Edo (l’attuale Tokyo). In questa serie di paesaggi, i tagli prospettici di Hiroshige sono rivoluzionari, attualissimi: vere e proprie inquadrature fotografiche, caratterizzate dall’asimmetria e dal contrasto tra il primo piano in close-up e lo sfondo. Non ci stupisce, dunque, che con la sua modernità Hiroshige abbia stregato pittori europei del calibro di Monet e Van Gogh. E infine, quando il visitatore della mostra pensa che ormai le sorprese siano finite, l’ultima sala dell’esposizione, subito prima dell’uscita, presenta una piccola selezione di componimenti poetici in giapponese. Quello che mi ha ricordato di più l’arte di Hiroshige è questo: “Lo splendore del pino / compare inatteso dopo la gelata / il colore di mille anni riluce profondo / nella neve”.
Francesca Trinchini