Magie inutili. Vita, errori e miracoli di Florence Welch, la strega moderna dell’indie-rock

Le canzoni possono essere incredibilmente profetiche, come degli avvertimenti inconsci o dei messaggi per me stessa, ma spesso non so che cosa sto cercando di dire, e lo capisco solo molti anni dopo. Oppure una predizione si avvera, e io non potevo fare nulla per impedirlo. È come se fosse un tipo di magia inutile.

Florence Welch, nella prefazione del libro “Useless Magic: Lyrics and Poetry”

Tra i fan dei Florence + the Machine – band capitanata nonché fondata dalla cantautrice londinese Florence Leontine Mary Welch – è uno scherzo ricorrente: Florence è una strega. Oppure una sirena dalla voce incantevole, o una ninfa dei boschi che cerca di mimetizzarsi tra gli umani, nel caos della vita cittadina. E sembra che Florence, con i suoi lunghi capelli ramati da musa pre-raffaelita e gli svolazzanti abiti Gucci che Alessandro Michele disegna apposta per lei, non faccia proprio nulla per smentire questo genere di leggende metropolitane. Ad esempio, abbiamo il video di un concerto dove Florence sembra letteralmente scatenare una tempesta di vento con la sua voce melodiosa, cantando Sky Full of Song (uno dei singoli di High as Hope, il loro nuovo album). O ancora, si può vedere Florence su Instagram mentre legge tarocchi e indossa corone floreali intrecciate, o nei talk show dove racconta ridendo di aver scritto un libro di incantesimi, da bambina. E infatti il suo primo vero libro, uscito qualche settimana fa, si intitola proprio Useless Magic, “magia inutile”. Si tratta di una raccolta di canzoni, poesie e disegni, presi direttamente dai suoi taccuini privati; un personalissimo collage di immagini, idee e sensazioni da una delle voci più intense – sia intellettualmente che fisicamente: Florence riesce a tenere un acuto per quasi trenta secondi – del panorama indie-rock odierno.

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Ma la storia di Florence, come il suo libro, è frastagliata, punteggiata di momenti oscuri: dipendenza da alcol e droghe, disturbi alimentari, storie d’amore complicate. Li ripercorre tutti nelle canzoni di High as Hope, che, a differenza di quelle degli album precedenti – Lungs (2009), Ceremonials (2011) e How Big, How Blue, How Beautiful (2015) – ispirano finalmente una consapevolezza del dolore più matura. “Esiste un’intera mitologia sul fatto che per produrre grandi opere d’arte bisogna soffrire, e io ci ho creduto fino in fondo” racconta Florence in un’intervista a Vanity Fair. “Il mito dell’artista tormentato. È stato bellissimo accorgersi che, sotto sotto, esisteva la pura e autentica gioia di creare. Sono così felice di poterlo fare, e credo che senza sarei molto più incasinata, non avrei la mia ancora di salvezza. Ho avuto così poca cura di me stessa che, senza questo desiderio di creare, non so che fine avrei fatto. Temo non una bella fine”. Florence esprime questo stesso concetto in No Choir, la canzone che conclude l’album: la felicità, quella vera, non è l’euforia di uno sballo o la grandiosità di un concerto, bensì “an extremely uneventful subject“. Florence ci insegna che la felicità è modesta, tranquilla, anche piccola; ma preziosissima.

Francesca Trinchini

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