Mettete uno “stallone italiano” a Philadelphia, aggiungete una storia da underdog di successo e tirate le somme. Ecco, risulta davvero impossibile non proiettare questa associazione mentale ad una delle saghe più iconiche della storia del cinema, quella di Rocky Balboa, epitome multimediale del concetto di resilienza. Il Wells Fargo Center non sarà lo Spectrum ma provate a traslare tutto nel mondo reale e vedrete uscir fuori il nome di Marco Belinelli. Questa notte i suoi Sixers hanno archiviato sul 4-1 la serie di primo turno dei playoff Nba contro gli Heat del 3-time champ Dwyane Wade, proiettandosi verso una semifinale da giocare contro la vincente tra Boston e Milwaukee (3-2 nella serie finora). Aldilà dei 16,6 punti di media, del +10,8 di plus/minus e dei 30’ e spiccioli spesi in campo mediamente nella serie, devono essere l’approccio e la condotta del nostro portacolori a colpirci, vista l’elezione dell’azzurro ad equilibratore di una compagine straripante di talento (Embiid e Simmons su tutti) ma quanto mai bisognosa di qualcuno che potesse mostrare la via.
Il percorso della guardia emiliana nella lega più competitiva del mondo è improntato sui dettami della cultura del lavoro e dell’attitudine alla vittoria. Queste sono state e restano le sue vere armi, molto più devastanti delle sue bombe dall’arco perché capaci di scardinare ostracismi spesso pretestuosi in un sistema come quello americano dove la reputation riveste un ruolo decisivo nel percorso professionale degli atleti. Il “Beli” ha conquistato la fiducia di CP3 a New Orleans con la sua sagacia tattica, è diventato un beniamino a Chicago per merito di un apporto alla causa sempre decisivo, ha toccato le vette più alte con gli Spurs di Coach Pop grazie alla rara capacità di integrarsi in un sistema pressoché perfetto fungendo da valore aggiunto. Nell’alveo dei “big three” nostrani entrati nel circuito NBA tra il 2006 ed il 2008, Marco, absit iniuria verbis, era forse quello meno dotato di talento cristallino ma, alla fine dei giochi, sarà colui che ha saputo tracciare il solco più profondo nella storia della lega. L’arte di vincere, infatti, non è solo e sempre un dono innato quanto piuttosto una corazza che ci si costruisce pezzo per pezzo, forgiandone il metallo nelle quotidiane sfide della vita.
Il nostro sport ha tremendamente bisogno di gente che ispiri, di punti di riferimento capaci di trasmettere quegli “intangibili” che sono il segreto di ogni storia di successo, quello stesso successo che sembra aver abbandonato le nostre sponde in maniera preoccupante e che dobbiamo ricondurre in porto nella maniera più rapida possibile. Tutti a scuola dal “Prof.” Belinelli, le iscrizioni sono aperte.
Antonio Rico