“Stanco dei soggetti facili, delle nature e delle atmosfere che aveva dipinto più e più volte, andò alla ricerca del difficile, e delle atmosfere che non conosceva ancora.” Quest’osservazione di Jean-Pierre Hoschedé riassume tutto ciò che si potrebbe dire sul termine ultimo della ricerca artistica di Claude Monet, della quale la mostra “Monet. Capolavori dal Musée Marmottan Monet, Parigi” offre una prospettiva inedita e intrigante. Le 60 opere proposte dall’esposizione, donate al Musée Marmottan dal figlio di Monet ed esposte al Complesso del Vittoriano a Roma fino al 3 giugno 2018, sono tra quelle che l’artista custodiva nella sua casa di Giverny, la sua “terra meravigliosa”. Esploriamo il percorso tracciato dalla mostra curata da Marianne Mathieu analizzando, pezzo per pezzo, la citazione di Hoschedé.
Stanco dei soggetti facili… che aveva dipinto più e più volte. Di pochi artisti possiamo dire che furono ripetitivi e innovativi allo stesso tempo: forse, solo di Warhol e Monet. È grazie a loro che capiamo che “ripetizione” non significa necessariamente “monotonia”, e che quello che rende la vita preziosa è il dettaglio che distingue ogni attimo dal precedente. Monet è ripetitivo nella scelta dei soggetti, sui quali non si stancava mai di ritornare: pensiamo immediatamente alle trenta vedute della Cattedrale di Rouen, ma anche ai Covoni, ai Pioppi, alle Ninfee… Tuttavia Monet è anche innovativo nel modo di intendere e indagare il soggetto stesso, che finisce per diventare solo un pretesto, il palcoscenico che inquadra il gioco infinito delle luci, dei riflessi, delle ombre, del tremolare dell’acqua, che sono i veri protagonisti delle sue opere. Ed ecco che la ricerca di Monet diventa una corsa contro il tempo per catturare l’oraziano attimo fuggente e imprimerlo per sempre su una, dieci, cento tele. Un’impresa impossibile? È quello che pensava Nick Carraway, che ammonì così il celebre Gatsby di F.S. Fitzgerald: “Non si può ripetere il passato”. “Come!” rispose Gatsby, incredulo. “Certo che si può!”.
Nature e atmosfere. Monet fu anche un ritrattista: la prima sezione della mostra è dedicata alle caricature che Monet disegnò da adolescente e ai teneri ritratti dei figli Jean e Michel. Ma la fama di Monet è indissolubilmente legata ai suoi paesaggi, anzi, alle sue impressioni di paesaggi. Monet fu un esploratore infaticabile: dalla Normandia alla Liguria, passando per Londra (incredibili le vedute del Parlamento inglese e del ponte di Charing Cross immerso nella nebbia) e naturalmente Parigi, concludendo il viaggio della sua vita nell’amatissima Giverny. Disse di Monet lo scrittore Guy de Maupassant, che spesso lo accompagnò “in cerca di impressioni”: “Non era più un pittore, in verità, ma un cacciatore”.
Andò alla ricerca del difficile. Disse Monet di se stesso: “Inseguo l’impossibile”. Monet voleva afferrare quello che per sua natura è impalpabile, effimero, fuggevole: l’impressione di un momento, un effetto di luce, la consistenza della nebbia, un riflesso sull’acqua. Da qui la sua ossessione per il laghetto delle ninfee, che egli stesso aveva fatto impiantare nel giardino della sua casa a Giverny, e che dipingeva a tutte le ore del giorno. Spesso sceglieva una sezione precisa del laghetto e si dedicava a riprodurla a grandezza naturale: nascono così le Ninfee monumentali, su tele lunghe più di quattro metri. Ma l’aspetto più affascinante degli specchi d’acqua di Monet è che diventa sempre più difficile distinguere il riflesso dalla realtà, finché anche la realtà non si dissolve nella luce e nel colore. E così ci innamoriamo dell’illusione più che del soggetto, come novelli Narcisi.
…Che non conosceva ancora. Le ultime sezioni della mostra sono riservate alle opere che Monet produsse poco prima di morire, quando la sua vista era ormai compromessa: le Ninfee e i Glicini monumentali originariamente destinati all’Hôtel Biron di Parigi, oggi Musée Rodin; la serie del Salice piangente, quella del Ponte giapponese e infine quella del Viale del roseto, che l’artista non vide mai esposta quando era ancora in vita. Per chi è abituato ai paesaggi della prima maturità di Monet, vedere per la prima volta queste ultime opere è un’esperienza sconcertante. Il soggetto è scomparso, disintegrato dall’affastellarsi di pennellate dense e materiche – di cui, dal vivo, si può notare il rilievo – che non nascondono più la trama bianca della tela. Le opere dell’ultimo Monet spalancano uno squarcio verso l’arte contemporanea: non è un caso che il giovane Kandinskij, padre dell’astrattismo, fosse stato folgorato proprio da un quadro di Monet. Come il Michelangelo della Pietà Rondanini, all’affievolirsi della vita Monet contrappone l’esplosione e l’audacia di un’arte mai vista prima. Francesca Trinchini