Il fatto che la morte di uno scienziato abbia scosso così profondamente il mondo – e non solo quello scientifico – è, probabilmente, il più grande e bel tributo che Stephen Hawking avrebbe potuto ricevere.
Hawking è stato un’icona del nostro tempo. Oltre al suo incredibile impatto sulla fisica teorica degli ultimi cinquant’anni, a renderlo amatissimo dal grande pubblico sono stati la sua passione e curiosità, la sua naturalissima ironia, il suo carisma, la sua coerenza etica e ideologica, e il suo rifiuto di ogni stereotipo che avrebbero voluto imporgli.
Come possiamo ricordarlo?
Vorrei potervi parlare della radiazione di Hawking e della termodinamica dei buchi neri, della “teoria del tutto” e della cosmologia quantistica, ma non posso. Innanzitutto perché non ho un dottorato in Astrofisica (anche se non ce n’è certamente bisogno per apprezzare e ammirare la scienza di Hawking – e lui, con il suo grande talento di divulgatore, l’ha dimostrato) ma soprattutto perché provare a riassumere in poche righe le ricerche di una vita sarebbe inutile, se non controproducente. A questo punto potrei ripiegare, come hanno fatto in molti, sulla malattia di Hawking e meditare gravemente sul caso straordinario che gli ha permesso di vivere – e fare scienza – per molti più anni di quanto era stato creduto possibile. Ma rischierei di cadere nella condiscendenza, o peggio, nel luogo comune: sarebbe un crimine ridurre la figura complessa e lo scienziato rivoluzionario che è stato Stephen Hawking a una storia strappalacrime o a un mero exemplum morale. Come parlare, dunque, di Stephen Hawking? Come lo si può commemorare, senza scadere nel luogo comune né addentrarsi nel tecnicismo?
Ho concluso che se vogliamo fare qualcosa che avrebbe sinceramente rallegrato Stephen Hawking, dobbiamo fare più scienza. E per questo non ci vuole un dottorato: basta provare a indirizzare in modo scientifico lo sguardo che gettiamo sull’universo – a partire dalle cose più piccole. Perché la scienza non è soltanto un bacino di conoscenze, ma è innanzitutto un metodo, una forma mentis. Non è certamente il solo modo valido di guardare il mondo, né può essere l’unico in assoluto – sostenere ciò sarebbe, paradossalmente, antiscientifico. Ma è uno strumento che ci può essere molto utile, anche da un punto di vista filosofico: ad esempio, aiutandoci ad approcciare più serenamente quello che, in quanto esseri umani, ci ossessiona o ci terrorizza. Come la morte.
Einstein, alla morte del suo carissimo amico Michele Besso, scrisse alla sorella di lui: “Michele è partito da questo strano mondo, un poco prima di me. Questo non significa nulla. Le persone come noi, che credono nella fisica, sanno che la distanza fra passato, presente e futuro non è altro che una persistente, cocciuta illusione.”
Casualmente, Stephen Hawking è morto il 14 marzo, il giorno in cui Einstein avrebbe compiuto gli anni. 3/14, nel formato anglosassone della data: proprio come il numero π.
Lui non credeva in Dio, né tantomeno nella predestinazione. Sapeva che vivere in questo nostro universo non significa altro che navigare in un oceano di sterminate probabilità. Ma penso che questa piccola coincidenza gli avrebbe fatto piacere.
Stephen Hawking è morto. Ma forse oggi, da qualche parte, un genio è nato. Francesca Trinchini