Sul palco, denudato di ogni scenografia se non di alcune sedie disposte a semicerchio, undici giovani attori in nero. Sul fondale, si stagliano le loro ombre. Riccardo di Gloucester esordisce nel celebre monologo che dà il la allo spettacolo, ma le battute rimbalzano da una bocca all’altra: i “Riccardi” sul palco, si accorge presto lo spettatore, sono tre. Invadono zoppicando il palco, ridono sguaiatamente, ordiscono a gran voce trame per impadronirsi del trono di Inghilterra, senza curarsi del sangue che bisogna spargere: “La coscienza non è altro che la parola inventata dai deboli per tenere in soggezione i forti”, afferma Riccardo. In un crescendo di atrocità, Riccardo, finalmente re, si troverà infine solo ad affrontare la morte, vittima della catena di violenza che egli stesso ha avviato. Così la Compagnia Giovani dell’Accademia Teatrale di Roma Sofia Amendolea, con la regia di Paolo Alessandri, ha riletto liberamente il Riccardo III di William Shakespeare in Riccardo (Lunga Vita al Re), andato in scena al Teatro dei Marsi di Avezzano. Una riflessione sul trasformismo schizofrenico come arte della politica e sul fascino perverso del potere, nonché sulle potenzialità del corpo umano e della voce come unico veicolo per raccontare un dramma.
Abbiamo avuto la possibilità di parlare con il regista, Paolo Alessandri.
Perché la scelta di triplicare Riccardo?
Nel testo, Riccardo viene spesso definito come “cerbero”, “mostro a tre teste”: abbiamo voluto seguire questa suggestione. Ma all’inizio, in realtà, non riuscivamo a decidere quale dei tre ragazzi del cast [Stefano Bramini, Daniele Flamini e Gabriele Namio] sarebbe stato più adatto per interpretare il protagonista, perché erano tutti e tre molto bravi; successivamente, durante un’improvvisazione, abbiamo provato a dividere il personaggio tra i tre attori e abbiamo capito che lo spettacolo ci piaceva di più così. Di contro, tutti gli altri ruoli, anche quelli maschili, sono andati alle attrici: il contrario di quanto accadeva ai tempi di Shakespeare, quando anche i ruoli femminili erano interpretati da uomini.
Lo spettacolo è molto “fisico”: la scena è costruita quasi interamente sui corpi degli attori. Che tipo di preparazione fisica hanno dovuto affrontare?
All’Accademia, tutti gli attori del cast facevano parte della stessa classe, quindi hanno ricevuto lo stesso “imprinting”, e gran parte della loro preparazione durante gli anni di studio all’Accademia è stata dedicata al corpo e al movimento. In realtà questo non è nemmeno uno degli spettacoli più “corporei” che abbiamo fatto.
Ha fatto scandalo la produzione americana del Giulio Cesare di Shakespeare che raffigurava il dittatore con le fattezze di Donald Trump. È preferibile esplicitare e attualizzare la satira politica quando si porta in scena un dramma di Shakespeare, o lasciare che gli “universali” shakespeariani parlino da sé?
Questa è una domanda difficile! (Ride). Posso capire la tentazione, perché nella nostra ultima produzione, The Farm, ispirata a La fattoria degli animali di George Orwell, abbiamo cambiato il nome del tirannico fattore Smith in “Donald”, ispirandoci alla canzoncina per bambini Old MacDonald had a farm, l’equivalente inglese de La fattoria di zio Tobia. In quel momento, il vero Donald non faceva altro che parlare di muri… Però, con un autore contemporaneo come Orwell, una libertà del genere ce la potevamo prendere. Con Shakespeare è diverso: anche lui criticava la società del suo tempo, ma lo faceva indirettamente, ambientando i suoi drammi in epoche e in luoghi lontani. Esplicitare i riferimenti politici in Shakespeare è un po’ come snaturarne le intenzioni.
Francesca Trinchini