Un Eccesso di Zelo rapisce il pubblico abruzzese. Report e intervista con Alberto Santucci, uno dei protagonisti in scena

Questa volta, lo spettacolo si svolge a sipario chiuso. La platea è completamente vuota: il pubblico assiste allo spettacolo direttamente dal palcoscenico. Le sedie degli spettatori sono disposte su tre lati del palco; il fondale è la tenda chiusa del sipario, sulla quale è proiettato il rettangolo bianco di una finestra. La scena è familiare e straniante: blocchi di cemento impilati simulano un tavolino, una credenza, degli sgabelli. La luce è azzurrina e asettica. La voce suadente di un sax invade la scena… ed è così che inizia “Un eccesso di zelo”, l’ultima produzione firmata Teatro Lanciavicchio, basata sul testo di Manlio Santanelli con la regia di Antonio Silvagni. La tragicommedia familiare a tre – con Stefania Evandro, Alberto Santucci e Giacomo Vallozza – si svolge tutta tra le pareti di questo salotto impossibile: cercare di uscirne porta, inesorabilmente, alla follia. Così le nevrosi dei tre personaggi (il marito, la moglie e l’anziano padre di lei) ristagnano e marciscono in una sola stanza; in un’atmosfera così asfissiante, la tragedia sembra inevitabile quanto assurda, e conduce a un inaspettato scambio di ruoli tra la moglie e il marito. In seguito a questa cesura brutale, tuttavia, la vicenda sembra ripetersi specularmente, fino alla sua conclusione in/naturale: è un gesto estremo, paradossale, a riportare i tre personaggi allo stesso livello… letteralmente e metaforicamente.

“Un eccesso di zelo”, così come è stato presentato al Teatro dei Marsi, è un’esperienza teatrale totalizzante e sorprendente, in pieno stile Lanciavicchio. I punti nevralgici della vicenda umana e familiare vengono smascherati in questa “tragedia dello squallore”, tanto più banale quanto tremenda, dove anche i slanci più nobili sono inquinati di cinismo, egoismo, ossessione. Lo squisito quadretto domestico e matrimoniale di Santanelli ha preso vita e anima grazie alle notevoli interpretazioni di Evandro, Santucci e Vallozza. Quando lo spettatore lascia il teatro, non si sente come se avesse “solo” guardato uno spettacolo, ma come se avesse affrontato un viaggio.
Abbiamo avuto l’occasione di dialogare con Alberto Santucci, uno dei tre attori protagonisti:

Quale è stata la genesi dello spettacolo? Che tipo di lavoro avete affrontato, assieme al regista, sul testo di Santanelli?

Questo testo ci è stato fatto conoscere da altri amici “di teatro” e ci è piaciuto tantissimo; anche se è stato scritto negli anni ’80 è ancora estremamente attuale. Ci è sembrato giusto proporlo per confrontarci con un tipo di teatro che noi non affrontiamo spesso, così abbiamo voluto tentare questa sfida assieme a Tonino (il regista Antonio Silvagni, ndr). Anche per noi attori il lavoro non è stato facilissimo, ma alla fine siamo soddisfatti del risultato. 

Il personaggio di Ivio costruisce attorno a sé una barriera impenetrabile di cinismo per nascondere la propria vulnerabilità. In che modo si è rapportato con la personalità e le scelte di Ivio? E, più in generale, bisogna necessariamente empatizzare con un personaggio per interpretarlo efficacemente?

Ivio non è proprio una figura negativa, ma classicamente un po’ problematica, nel rapporto che ha con la moglie e con il suo lavoro. Certo, bisogna in qualche modo capire il personaggio e quello che l’autore voleva esprimere. C’è anche la tua visione personale del personaggio: leggi il testo, capisci come te lo immagini, come lo vorresti. Poi c’è la mano del regista, che dà delle indicazioni su come portarlo avanti. Ma su questo punto io e lui ci siamo sempre trovati d’accordo, perché abbiamo discusso molto sulle caratteristiche e sulla psicologia di questo personaggio. 

Uno degli aspetti più interessanti del personaggio di Ivio è il suo rapporto di amore e odio con la musica e con il suo lavoro (Ivio è un oboista). Ivio è frustrato perché non si può ridurre l’arte a una professione? Lei cosa ne pensa?

C’è anche questo, sicuramente. Ivio vive il suo lavoro in maniera pesante, quindi, alla fine, di artistico rimane veramente poco. Anche se, in alcuni momenti, ad esempio quando parla delle parti di solista che gli vengono assegnate in alcune opere, viene fuori la vena più artistica che c’è in lui. Però, fondamentalmente, lui vive il suo lavoro come una routine che è costretto a seguire e che gli pesa. 

Secondo lei qual è il messaggio fondamentale di “Un eccesso di zelo”, se ce n’è uno?

Il messaggio che viene fuori da questo testo riguarda i rapporti umani: come possono evolvere e come possono essere vissuti in maniera tragica. A volte, per orgoglio personale, non si è disposti a fare un passo indietro e si finisce per rovinare dei rapporti che di base sono forti. Inoltre c’è l’attualità di questo tipo di racconto, che può essere calato in qualsiasi famiglia – anche se non si arriva a degli eccessi come nel testo di Santanelli, qualcuno si potrebbe riconoscere in alcuni passaggi. 

Qual è il ricordo più caro, per lei, di questa esperienza teatrale?

Più che un episodio, è una sensazione generale dei tre giorni di spettacolo: il rapporto con il pubblico. Tonino ha voluto allestire la scena in questo modo, portando il pubblico sul palco, dentro la casa di Ivio e Aurora, proprio per farlo sentire parte della storia. Sarebbe stato tutto molto diverso se l’avessimo allestito in maniera tradizionale, con il pubblico in platea. Così, invece, abbiamo voluto rompere la distanza tra la scena e il pubblico. Quindi ricorderò soprattutto questa sensazione di vicinanza, di contatto con gli spettatori. Avere il pubblico a un metro da te ti trasmette molto di più, a livello di emozioni e di reazioni. È una sensazione particolare.

Francesca Trinchini

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